Quattro carogne a Malopasso (1989), di Vito Colomba

Supremo 18 Luglio 2014 0
Quattro carogne a Malopasso (1989), di Vito Colomba

quattro-carogne-malopasso_jpg_jpgSiamo in un Far West stranamente simile alla Sicilia. Bill Nelson (Salvatore Cipponeri) è di ritorno a Malopasso, suo paese natale, per far visita ai genitori dei quali non ha più notizie da oltre dieci anni. Ad accoglierlo nelle lande desertiche c’è lo sceriffo Sam O’Hara (Tony Genco), il quale gli dà ospitalità nella modesta dimora che divide con sua figlia Mary. Durante il pranzo, Sam rivela a Nelson che i suoi genitori sono stati assassinati anni prima da banditi sconosciuti: l’unico indizio raccolto sulla scena del delitto è un ferro di cavallo su cui è incisa la lettera P. Sconsolato dalla terribile notizia, Nelson prende il ferro mostratogli da Sam e parte alla ricerca dei responsabili: durante una sosta al bar l’uomo s’imbatte in un gruppo di criminali e si libera di loro, scoprendo che il fuorilegge numero uno di Malopasso è un certo Parker (Daniele D’Angelo). Forte dell’indizio del ferro, Bill si convince che Parker abbia ucciso i suoi genitori: O’Hara lo avverte che sarà difficile fare giustizia, poiché il fuorilegge è solo un fantoccio delle istituzioni che permettono ai banditi di amministrare il territorio. Con queste premesse, rendere la contea un posto migliore sarà molto difficile…

Quattro carogne a Malopasso è certamente la sorpresa dell’anno per quanto riguarda la nostra rubrica sui B movies: un vero e proprio capolavoro del trash made in Italy, scritto e diretto da Vito Colomba. Il bizzarro regista divenne celebre negli anni ’90 per mano della Gialappa’s Band, che con il suo classico stile irriverente commentò alcune scene del film all’interno del programma Mai dire TV, insieme a delle abominevoli lezioni di regia tenute dallo stesso Colomba durante le pause di lavorazione. Un vero e proprio pistolero del cinema, del tutto incurante delle più semplici e basilari regole filmiche: errori di continuità a non finire (la segretaria d’edizione era in vacanza?), inquadrature lunghissime con una messa in quadro stentata, e una composizione fotografica confusa. Il principio di verosimiglianza viene calpestato senza pietà anche nelle scene clou, appellandosi all’idea che tanto si tratta di finzione, ma finendo per sfiancare la pazienza dello spettatore. Da annotare un paio di audaci inquadrature, capaci di far rivivere – solo per qualche istante – le leggendarie pellicole di Sergio Leone, omaggiate non troppo velatamente da Colomba.

Il soggetto è un’interessante allegoria della mafia in chiave western, in cui tutto il territorio è in balìa dei malviventi e la legge, ridotta all’osso dalle stesse istituzioni, non può far altro che stare a guardare. L’unico barlume di speranza risiede nello “straniero” Bill Nelson, armato da propositi di giustizia, che dovrà scontrarsi contro una malavita tenuta in piedi dall’omertà dei cittadini e della Chiesa. Purtroppo la sceneggiatura è resa imbarazzante dai dialoghi dei personaggi: giusta la scelta di far recitare gli attori con il loro accento, ma il sonoro agghiacciante rende incomprensibile gran parte degli scambi, già ripetitivi e mal scritti in partenza.

genco

Il cast, composto presumibilmente da amatori e gente scelta unicamente per la fisionomia, è sicuramente la chicca del film. Avendo a che fare con non professionisti il giudizio sulla recitazione non può essere molto rigido, ma a essere completamente sfasati sono i tempi delle battute: il regista sembra tralasciare volutamente il tutto nel buon nome del realismo, ma il suo spaccato di vita è privo d’enfasi a causa di grossolani errori. Fra gli interpreti si distinguono Salvatore Cipponeri (scomparso all’inizio di quest’anno), ben diverso dalla classica faccia da eroe western ma comunque credibile nel ruolo di Nelson, e il compianto Tony Genco, che con il suo gesticolare eccessivo e i suoi modi teatrali rende indimenticabile lo sceriffo O’Hara. Per ultima ma non meno importante c’è Caterina Pace, la quale riesce a infilare uno sbadiglio anche durante una straziante scena di commozione: fantastica!

Come già accennato, l’audio è davvero la zavorra del film. A parte le battute incomprensibili e una scena di lotta completamente fuori sync, il sonoro è qualcosa di mai sentito prima. Tra effetti diegetici simili a una trombetta da stadio, strani rumori di fondo – come i nitriti dei cavalli anche quando gli animali non sono presenti –, e parole inspiegabili in sottofondo, il risultato è davvero sibaritico e allucinante. Anche il montaggio presenta diverse pecche: l’errore più grave è una panoramica tagliata bruscamente a pochi secondi dall’inizio, un tocco di classe degno di un filmino della prima comunione. La colonna sonora è l’unica arma vincente, ma la spiegazione è molto logica: tutte le composizioni riciclano Ennio Morricone, citato nei titoli di coda ma solo come autore della musica di chiusura.

È giunto il momento di tirare le somme di questo scoppiettante capolavoro: Quattro carogne a Malopasso è il prodotto audiovisivo più sconvolgente del nostro cinema, capace di stupire lo spettatore con una qualità talmente infima da sembrare un’illusione. Stavamo cercando da molto tempo un film capace di divertire come non mai capovolgere una giornata cominciata male, così trash da far sembrare inferiore tutto il resto. Vito Colomba conserverà per sempre il primato di miglior regista spazzatura italiano, e in chiusura citiamo una perla tratta dalle sue lezioni: “Mi è capitato che non conoscendo bene la macchina…Mi è capitato che, mentre che dovevo girare, azionavo il bottone per mettere in moto la macchina invece la spegnevo”.

Marco Rudel

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